CINEMA COREANO: DALLE RADICI A “PAST LIVES”


Mi piace ricordare che il cinema coreano non ha mai avuto una vita semplice e le cose semplici non mi sono mai piaciute.

Un turbine di intrighi e altalene di fortuna l’hanno condotto poi a quello che oggi apprezziamo sui grandi schermi; in parole povere, possiamo dire che il cinema nato in Corea del Sud ha avuto modo di “farsi le ossa” evitando tante sventure e ostacoli.

Innanzitutto, affonda le sue radici intorno agli inizi del XX secolo, momento in cui si assiste, durante la resistenza contro l’occupazione giapponese, alla prima registrazione ufficiale del lungometraggio muto “Righteous Revenge” (1919), diretto da Yun Baek-nam.

Per il lungo periodo successivo, i freni sulle produzioni cinematografiche – a causa delle tensioni politiche e sociali – determinano un momento buio nella storia della pellicola coreana.

Un coraggioso risveglio si ha durante gli anni ’50 e ’60, lasso di tempo in cui si tocca con mano la rinascita, destinata però ad essere soltanto una breve luna di miele a causa di nuove censure, unite poi alla concorrenza con l’Hollywood di Hitchcock e il suo “Psycho”, di Stanley Kubrick, Mike Nichols e di tutti i suoi esponenti principali che nel frattempo erano già in ascesa e pronti a forgiare l’idea di cinema internazionale nato nella “Film Capital of the World”.

Saranno duri anche i successivi, fino agli anni ’80, ma la fortuna che seguirà, negli anni ’90, sarà tutt’altro che effimera (finalmente!) e rappresenterà proprio l’eredità cinematografica e la fonte di ispirazione dei registi attuali.

Gli anni 2000 rappresentano una rivincita contro tutti gli intralci vissuti fino a quel momento: si parte con il thriller psicologico “Oldboy” (2003) di Park Chan-wook e “Memorie di un Assassino” (2003, proiettato nelle sale italiane nel 2020 dopo il successo di “Parasite”) di Bong Joon-ho, aggiudicandosi poi la fama internazionale dopo “Snowpiercer” (2013) e soprattutto con “Parasite” (2019) che, con la sua irriverenza e necessità di denuncia sociale, si è aggiudicato la vittoria di ben quattro premi agli Oscar 2020 e la Palma d’Oro a Cannes.

In effetti, il classico film coreano ha quasi sempre uno stampo iconico e riconoscibile per la sua satira e per le sue critiche taglienti verso la società attuale, trattando temi complessi dal punto di vista morale che pochi al mondo hanno avuto il coraggio di indagare.

Una piacevole stranezza è che il tragicomico si fonde perfettamente con il thriller e il bisogno di esprimere questioni socialmente importanti, confondendo e lasciando di stucco lo spettatore; questo particolare lo osserviamo bene oltre che in “Parasite” anche in “Squid Game” perché, nonostante sia una “storia” raccontata attraverso una serie TV, non si discosta nemmeno un po’ dalle solide basi e dagli affronti spietati alla società coreana.

La caratterizzazione dei personaggi per me meriterebbe un discorso a parte, perché non sono altro che la trasfigurazione dei vizi e delle virtù umane. La profondità con cui questi sono stati creati e studiati ricalca perfettamente ciò che si riflette nella realtà, nel bene e nel male.

Anche le emozioni dei personaggi stessi le ho trovate più “reali”, raffinate e naturali rispetto al personaggio tipico che si può incontrare in qualsiasi altro film.

Sembra come se ognuno di loro non abbia nessun tipo di filtro – e direi menomale, dopo tutti questi anni di censura – dal punto di vista emotivo e psicologico. Ci sono ovviamente una serie di questioni e obblighi da rispettare sulla pellicola stessa, ma è come se loro, arrivati a questo punto, cercassero di sdoganarsi da ogni vincolo che fino ad ora, in un altro senso, hanno dovuto rispettare.

Nel cinema coreano non ho trovato falsità ma soltanto tanta, tanta profondità e concretezza.

Un bel colpo mi è stato dato dopo l’uscita in sala di “Past Lives” (2024, di Celine Song, sudcoreana ma ormai residente negli Stati Uniti): è stato un film che ho amato e allo stesso tempo odiato, perché non banale e tanto sensibile.

Sicuramente non mi aspettavo di trovarmi davanti ai soliti cliché e alla classica storia d’amore.

E così è stato (più o meno).

Se dovessi trovare una parola per racchiudere il senso del film sceglierei “dualismo” e ora capirete il motivo.

Prima di tutto ritorna il confronto tra Corea del Sud e Stati Uniti, così come lo è stato durante tutto lo sviluppo del cinema coreano stesso: un continuo rimarcare i diversi punti di vista e diversi modi di pensare, di lavorare, di interagire e questa volta addirittura attraverso i due personaggi principali.

Personalmente faccio fatica ad esprimere a parole che tipo di sentimento mi ha lasciato; è quel tipo di film dolceamaro che ti sbatte in faccia la realtà ma allo stesso tempo ti lascia con un po’ di speranza, forse non proprio in un modo “moralmente corretto” (ma chi è che lo stabilisce alla fine?), però pur sempre speranza. La storia d’amore probabilmente è stata immaginata dallo spettatore che si è soffermato su quello che in realtà non c’è mai stato durante tutti i 106 minuti.

Un appiglio nostalgico unito ad un “Come sarebbe andata se…” hanno governato le emozioni di chi si è inevitabilmente immedesimato in quest’unico intreccio di vite così unite ma anche così parallele.

All’inizio, quando ho scritto che il film coreano non ha mai avuto la fortuna di avere una storia lineare mi riferisco in un certo senso anche a questo.

Al netto di tutto, riesce a toccare le corde più profonde e può lasciare sia un senso di amarezza e malinconia, sia una percezione di consapevolezza, libertà e maturità. Sta allo spettatore interpretarlo.

Resta il fatto che due cose sono certe: la prima è che merita di essere guardato, la seconda è che avrebbe dovuto trionfare almeno con un Oscar, ma per me è come se fosse successo.

Gaia Sansone

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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