Femminismo in Tunisia: è possibile?
Nello specifico, questo articolo si concentrerà sulle
rivendicazioni identitarie delle attiviste musulmane pie e illiberali alle
quali è negata la completa integrazione politica e sociale e la cui identità è
considerata opposta alla cosiddetta nozione di Tunisianité, ovvero la
narrazione nazionale su cosa significhi essere tunisino e che poggia su tre
pilastri fondamentali: essere laico secondo il modello di laicità francese,
essere patriottico ed essere liberal-democratico.
Essere un credente moderato, in effetti, è ciò che meglio
riassume la visione statale della cittadinanza e dell’identità nazionale sia
sotto il governo di Habib Bourghiba che sotto Zine al-Abidine Ben Ali
e che, a distanza di dodici anni dalla rivoluzione culturale, che partendo da Sidi
Bouzid scosse l’intero mondo arabo, continua a permeare la società
tunisina. Così, le attiviste musulmane pie e illiberali, comunemente
considerate fondamentaliste dalle istituzioni statali e dai movimenti
femministi tradizionali, si oppongono all’idea secondo cui, soprattutto in
quanto donne, dovrebbero essere escluse dalla narrativa nazionale a causa delle
loro convinzioni, e propugnano una lotta contraria non all’identità
statale tunisina ma piuttosto alla rappresentazione che lo stesso Stato
proietta su di loro e sulla loro religione da decenni.
Storicamente, a differenza dei movimenti femministi europei,
le attiviste femministe in Tunisia erano saldamente sostenute dallo Stato e non
godevano di un ampio sostegno popolare. In particolare, il sostegno statale era
spesso strumentalizzato a favore di radicali riforme politiche; ad esempio,
durante il governo di Ben Ali, il sostegno al femminismo era volto ad
indebolire l’islamismo e rafforzare il cosiddetto Islam moderato borghese -di
cui già Bourghiba si fece promotore- in opposizione all’Islam politico
che caratterizzava il sistema del paese. Dopo decenni di conflitto ideologico
tra donne laiche e islamiche, la rivoluzione del 2011 costrinse le due correnti
a cooperare nella stesura della nuova Costituzione; tuttavia, al di fuori del
parlamento, le associazioni femministe erano ancora frammentate. Inoltre, in
seguito alla rivoluzione, numerose ONG femministe locali e straniere sorsero
nel Paese, sovvenzionate da ingenti finanziamenti europei, i quali però
predilessero principalmente i gruppi femministi locali di orientamento
occidentale. Dalla sistematica e storicizzata emarginazione delle donne
musulmane dall’attivismo femminista ne consegue l’impegno sociale di
quest’ultime in modi non propriamente tradizionali; esse non prendono parte a
partiti politici né sostengono apertamente azioni politiche visibili come
campagne elettorali o manifestazioni, piuttosto si impegnano in associazioni
coraniche o madrase, poiché la maggior parte di loro preferisce contesti meno
istituzionali e gerarchici in cui possano esprimersi, libere dal giudizio di
uomini o donne laiche.
Quella che potrebbe sembrare una “auto ghettizzazione”, in
realtà, è una naturale conseguenza all'assenza di movimenti o partiti islamici
che ne rappresentino i diritti. Ciò potrebbe sorprendere poiché ci si
aspetterebbe il loro sostegno a partiti come Ennahda o ai nuovi partiti
salafiti, i quali, tuttavia, hanno subito un netto calo di consenso popolare.
In particolare, Ennahda, per essere accettato nel sistema politico, ha
incarnato il concetto di Islam moderato precedentemente menzionato e dal 2016
ha rettificato il proprio statuto definendosi un partito musulmano democratico,
rigettando l’iniziale piano di lotta all’attuazione della legge shariatica. Per
quanto concerne i partiti salafiti quali Ittilaf al-Karama, Hizb
al-Rahma e Jabhat al-Islah, molte donne ne denunciano il
coinvolgimento nelle comuni pratiche politiche, negandogli dunque il loro
sostegno. Tuttavia, alcune di loro vedono positivamente personaggi come Seifeddin
Makhlouf, leader di Ittilaf al-Karama e Cheykh al-Jaziri,
leader del partito al-Rahma, i quali hanno guadagnato popolarità tra i settori
più conservatori della società.
In conclusione, in una democrazia come la Tunisia post-2011 la
libertà di espressione è considerata un diritto fondamentale,
tuttavia molti analisti vedono lo Stato e l'élite laiche come esclusivisti
quando si tratta di identità nazionale. Pertanto, osservare le attiviste
musulmane a distanza di un decennio dalla rivoluzione è utile per esplorare i
dibattiti sull’identità nazionale, sulla legittimità e sullo Stato, poiché
rappresentano l’opposizione più feroce alla visione tradizionale della
modernità. Studiosi come Joseph Massad, ad esempio, hanno esplorato il
ruolo del liberalismo nell’Islam sostenendo che esso sia stato il principale
strumento politico atto alla secolare distinzione tra un Occidente libero e
sviluppato rispetto a un Oriente rozzo e sottomesso. A sostegno di questa
ipotesi, egli menziona la cosiddetta ‘missione di salvataggio’ del
femminismo liberale occidentale in relazione alle donne musulmane prive di
libertà d’azione. Altri argomentano che, solo perché il femminismo
occidentale offre una nozione di oppressione unica al mondo quella del
patriarcato, ciò non significa che le condizioni di oppressione delle donne
nelle realtà non occidentali siano legate unicamente al patriarcato. Le donne
delle associazioni coraniche inneggiano infatti ad una società non paritaria ma
complementare, sostenendo che uomini e donne, poiché creati con caratteristiche
fisiche e biologiche diverse, debbano svolgere ruoli diversi ma complementari.
Movimenti come #EnaZeda hanno raccolto nuove tendenze nel femminismo, prendendo le distanze dal femminismo tradizionale bianco e occidentale che, pur definendosi più inclusive di quelle tradizionali, faticano ancora a diventare portatrici di valori universalmente condivisi. La sfida principale oggi consiste quindi nel conciliare le molteplici realtà tunisine che non sono in linea con l’identità nazionale borghese, democratica, laica e moderna e dunque non conformi alla visione che l’establishment politico tunisino e ampi settori della società dei desiderano proiettare. Si tratta di un’interpretazione, quest’ultima, considerata estremamente conservatrice della religione, basata su una lettura letterale del Corano ritenuta contraria ai valori di un’identità nazionale apparentemente unita.
Sara Scampini
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